La Poesia eterna espressione dei sentimenti - Relatrice Mirella Tribioli - Letture Maria Luisa Botteri .

Non tutti sanno che il primo giorno di primavera, il 21 Marzo, è la giornata mondiale della poesia istituita dall’UNESCO nel 1991, avendo riconosciuta a questa espressione tra le più belle e di antica memoria, la capacità da sempre, soprattutto di “dialogo”, nel suo essere “universale”; oggi ancor più “interculturale”, ponte tra persone diverse che unisce al di là delle lingue, dei costumi e delle culture; nel suo senso di bellezza che la rende “globale”. Prepotente mi viene in mente quell’Umberto Poli che, abbandonato dal padre prima della nascita, mutò il suo cognome in Saba, che in ebraico vuol dire -pane-, proprio in onore dell’amata madre ebrea che tanta dedizione gli aveva mostrato nel tempo. Perché mi viene in mente? Proprio per la sua poetica di “dialogo”, rivendicata da “poeta più chiaro del mondo” come amava dire di se stesso, estraneo come era agli sperimentalismi di tanti poeti del ‘900: crepuscolari, futuristi, ermetici dai monologhi oscuri. Nella sua ricerca di essere “discorsivo e semplice” rende la poesia rifugio e conforto per l’uomo addolorato, agevolando, appunto, “il dialogo” con questi, la comunicazione e l’amicizia, forte del suo messaggio di pace. Ecco, nell’individuare i vari poeti del tempo nei loro testamenti letterari frutto dell’espressione dei loro sentimenti, si colgono le tante risposte dai vari significati, che scaturiscono dalla loro sensibilità di scrittura, dalle loro domande riguardo la vita nella sua condizione di felicità, gioia, caducità, dolore e affanno, e dall’interrogazione, nel contempo, riguardo cosa sia la poesia stessa, che appunto Saba traduce in quelle “trite parole” della quotidianità. Tanti, dunque, sono i poeti che si sono chiesti in che cosa consista il loro ruolo, intimiditi dal fatto che la poesia, le lettere “non dant panem” e cosa sia per loro la poesia stessa (si ricordano ad es. Verlaine, Dickinson, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Neruda ecc.) e tantissime sono state le risposte tentate. Alcune ci fanno sentire liberi, altre ci fanno sentire in gabbia e seppur difficili ci affascinano perché stimolanti, nel rimanere consapevoli, come dice Alda Merini, che i poeti con la loro poesia, “Nel loro silenzio fanno ben più rumore di una dorata cupola di stelle”. Allora cos’è la poesia? Per quanto detto, possiamo dire che nessuno è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente, risultando essa del tutto emblematica. Per conto mio, nel lasciare da parte qualsiasi definizione che potrebbe essere riduttiva, mi piace far riferimento a tre autori di generazione diversa, tramite i quali si possono ricavare tre caratteristiche importanti della poesia stessa, che si possono sintetizzare in felicità, sofferenza, finzione. Leopardi, scrittore dell’800, in un passo dello Zibaldone (30 N0vembre1828), suo diario intellettuale, commenta riguardo la poesia, è essa “…felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in vita mia”. Per Leopardi, dunque, la poesia è piacere e felicità per chi scrive e per chi la fruisce. Per Ungaretti, circa un secolo dopo, nella lirica dell’Allegria: “Poesia” è, invece dolore. Il poeta si trova a gridare in rima la sua sofferenza nel non riuscire a tradurre in parola l’universo e i sentimenti dell’uomo. “Vivo di questa gioia malata di universo e soffro di non saperla accendere nelle mie parole”. Per il prolifico contemporaneo Cattafi la Poesia è come “una verità vestita di menzogna”, una finzione che trasmette la verità dell’uomo, una fantasia strettamente legata alla realtà, tramite la quale il poeta esprime i suoi sentimenti e quelli degli altri, come si evince dal testo “Geografo” “…Non ho altro da dirvi per mentirvi…ho parlato di me…spinto dalla bisogna ad una verità vestita di menzogna” E’ pensabile che come è nato l’uomo sia nata la poesia, congenita alla sua persona, al suo sentire, nel suo significato di “fare”, di operare su se stessi, nel disvelare le emozioni più recondite, rivelando l’essere nel suo rapporto con gli altri, proprio nel capire che non si è soli. Più disparati sono stati e sono gli argomenti della poesia, essendo appunto, come detto, l’espressione di noi stessi, la varietà che l’uomo prova e vuole trasmettere. Temi di sempre e comunque nuovi: quello della natura, dell’amore, civile-sociale, della guerra, della famiglia, della donna, della nostalgia, della memoria, del bene, del male ecc. La poesia, per essi, assurge ad una condizione etica e l’uomo non sarebbe quello che è, senza di essa. E’ in questa direzione, nel dover operare una scelta tra le tante e varie tematiche, che mi preme trattare per la mia sensibilità, particolarmente le poesie e gli autori che ricordano “ i tempi e i luoghi lontani”, perché più toccano il cuore nel portare con sé la nostalgia e la malinconia per il rammarico dei bei tempi andati, quali quelli della fanciullezza e giovinezza, nella forte volontà di riviverli ancora. La giovinezza, la felicità, sono il sogno legato a quel paesaggio familiare, tanto caro, per quei profumi, rumori, colori, che diventano aspettativa di forte speranza, nel voler smentire l’insicurezza di un futuro, che ahimè quasi sempre diventa amara realtà. La poesia de “i tempi e i luoghi lontani” sviluppata anche per problematiche storiche contestuali, ha visto una produzione molto ricca. A proposito, non possiamo trascurare di menzionare Dante che subì l’esilio. In quella che era la lotta tra le fazioni dei Guelfi Bianchi più moderati e Guelfi Neri più combattivi, che sostenevano il Papa e, i Ghibellini che invece tenevano per il primato politico dell’imperatore, lui che era Guelfo Bianco divenne inviso a Papa Bonifacio VIII e coperto di accuse infamanti di ruberia. Fu condannato a due anni di confino, anni che non lo videro rientrare più a Firenze. Quei Guelfi e Ghibellini di cui tanto parlerà nelle sue opere e particolarmente nel sesto canto delle tre cantiche (i cosiddetti canti politici), in quanto con le loro lotte avevano destabilizzato e martoriato l’amata Firenze e la cara Italia. La situazione degenerata e degenerante di queste due fazioni sarà raccontata nell’”Inferno” per bocca del “goloso” Ciacco. Nel “Purgatorio” nell’incontro con il poeta trovatore Sordello di Goito, che non risparmierà l’Italia e Firenze, tacciandole di barbarie e corruzione. Nel “Paradiso” da Giustiniano; sarà, infatti questi, con la sua forte invettiva, a sottolineare quelle lotte che tanto avevano compromesso “il grande disegno di unità e pace” per Firenze e l’Italia stessa, obiettivo agognato dalla teoria politica dantesca. Struggente è la disamina storica per la sua prediletta Italia, infatti la testimonia nelle sue bellezze di italica memoria, dandone i confini a Pola presso del Carnaro, come afferma nel sesto cerchio infernale dove soffrono gli eretici. Qui, il sommo poeta, con dotta poesia, per descrivere gli avelli della città di Dite, ricorre ad un doppio paragone geografico citando sia la necropoli di Arles, sia quella di Pola e per quest’ultima dichiara che si trova presso il Golfo del Carnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini: “Si com’a Pola presso del Carnaro/ ch’Italia chiude e i suoi termini bagna”. Importante è il tema politico perché sottende le tante altre tematiche che stanno a cuore al poeta, come la sua condizione di esule dall’ingiusto destino, che soffre i ricordi di amore e odio per la sua terra lontana. Questo periodo di allontanamento dal luogo natio fu molto patito, il non partecipare alla vita della sua amata terra gli diede molto dolore. Luoghi della città esaltati nelle sue varie opere, nei versi immortali, ricordano l’amore del poeta per la bella Firenze. Diversi sono i canti della Commedia che riportano il fermento nostalgico della città. Nel XV canto dell’Inferno si fa riferimento alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, dove avvenne l’incontro ultra terreno tra Dante e il suo maestro Brunetto Latini, sotto una pioggia di fuoco. Nel canto XVI del Paradiso si menziona, con una coloritura di versi, l’eterno conflitto tra la famiglia dei Donati e quella dei Cerchi che, lasciate alla fantasia del lettore, sembrano volteggiare con i loro mantelli lungo il corso. Quel corso dove si ravvisa anche la casa dei Portinari dai quali nacque la bella amata “Tanto gentile e tanto onesta” Beatrice, sempre viva nel ricordo. Altro poeta che per motivi di vita è peregrino per la sua Toscana, è Giosuè Carducci. L’infanzia in Maremma lo segna. “ Traversando la Maremma Toscana”, un sonetto che appartiene alle -Rime nuove- , approfondisce le sue nostalgiche memorie autobiografiche. Nel vedere il paesaggio desolato della Maremma rivede i luoghi e rivive i tempi della sua fanciullezza, stabilendo un intimo colloquio con la natura, mentre il cuore gli balza in gola per la commozione, tra gioia per averla rivista e pianto per il rammarico del passato e per le vane illusioni della giovinezza. La Maremma descritta in tutta la sua bellezza di paesaggio ispira al poeta un senso di pace e di coraggio, di virile accettazione della vita. La tematica di questa poesia conclusiva di una affermazione fiera della realtà, fa evincere i nobili ideali morali e civili del poeta riconosciuto vate, con i suoi valori saldi ed elevati, ispirati al mondo classico ed espletati in opere quali l’ode “Miramar” e ne “Il comune rustico”. Miramar, dedicata alla drammatica morte di Massimiliano d’Austria, è il nome di un castello che sorge vicino Trieste, dal quale si respirano le gemme del Mar Adriatico e dell’Istria: Muggia, Pirano, Egida (Capodistria), Parenzo, Salvore, i morti veneti, e le vecchie fate istriane. Anche “Il comune rustico”, poesia di ispirazione epico-storica, vede nella prima parte uno struggente saluto ad un paesaggio alpino della Carnia in provincia di Udine, dove il poeta ha trascorso un soggiorno di villeggiatura, in una delicata descrizione di natura assai bella e suggestiva. E’ proprio questa rappresentazione a sollecitare la fantasia del poeta a rievocare i ricordi del passato: la vita vigorosa dei luoghi della Carnia nell’età comunale, la vita democratica di un comune rustico di libera associazione di pastori e montanari, ai quali il console assegna la cura dei prati e dei boschi mentre ai giovani la difesa della comunità contro i popoli stranieri, gli Unni e gli incipienti Slavi invasori, tra il timore delle famiglie che piangono i loro figli votati alla guerra. Intrigante in questa poesia è il messaggio ponderato riguardo la coscienza di difesa del popolo del Medioevo contro il nemico e quello dell’universalismo politico dell’Impero Romano. Chi più dolente, nella sua poesia riguardo “I tempi e i luoghi lontani”, se non Foscolo? ( Niccolò) Ugo nacque a Zante, l’antica Zacinto nel greco mar, ma di dominio veneto dal 1484, tanto da essere, per questo, cittadino veneziano di natio veneziana, isola dove visse la prima infanzia in condizioni modeste. A Zacinto dedicò uno dei suoi sonetti più belli, nel quale in maniera affranta, esprime tutta l’amara malinconia per il luogo natio, dove non crede più di tornare. Il pensiero della bellezza di una natura incontaminata ed il mare cristallino gli insorge prepotente insieme ai versi di Omero che la canta in uno spettacolo di verde, di fronde e nubi. Quell’Omero, suo modello di classicità, che ha narrato i perigli di Ulisse nel ritornare ad Itaca e baciarla, mentre lui contrito, è consapevole di aver perduto definitivamente il contatto con la sua terra, che “non avrà altro che il canto” del figlio, ormai lontano per sempre, lontano fisicamente ma non con il ricordo, per il pensiero che gli faceva costantemente accarezzare i giorni dell’infanzia, la cara madre (Diamantina Spathis) e quella nutrice greca che come linfa vitale, lo aveva allattato al seno. Per quel nonno Priore e chirurgo dell’Ospitale militare di Spalato, per questo posto che verrà dato a suo padre medico, alla dipartita del nonno stesso, per un sostegno economico, vista la precaria situazione di famiglia, eccolo arrivare in Dalmazia dove ricevette nel seminario di Spalato una educazione classicistica, educazione che respirava anche per il suo vivere nel Palazzo di Diocleziano, immerso in una architettura classica, perché queste terre erano di cultura greca e latina prima e dopo italiana, legate a Venezia per 800 anni dal 1000 al 1797. Terre cedute con -Il trattato di Campoformio-, appunto, il 17 Ottobre del 1797 all’Austria, Il Trattato era la conclusione vittoriosa della Prima Campagna d’Italia di Bonaparte e segnava la fine della Repubblica di Venezia. Lo Stato Veneto venne ceduto insieme all’Istria (ora Slovenia e Croazia) e alla Dalmazia, fino alle Bocche di Cattaro (ora Croazia e Montenegro) all’arciducato d’Austria, che in cambio riconobbe la Repubblica Cisalpina napoleonica. Sarà, poi, anche il ricordo dei tre anni vissuti a Spalato fino alla prematura morte del padre, in quella formazione di una cultura della bellezza, a determinare il ricco sostrato alle tante belle poesie di Foscolo. Successivamente, nel suo peregrinare, si trasferì, insieme alla madre ed ai fratelli, a Venezia dove, perché democratico ed inviso al governo conservatore della Repubblica, si rifugiò sui Colli Euganei. Caduta la Repubblica, ritornò a Venezia, ma deluso appunto dal Trattato di Campoformido riparò a Milano. Il grande dolore sortito dalle terre cedute, è denunciato ne “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, pubblicato nel 1798. Sebbene questo sia un romanzo epistolare, il primo della letteratura italiana, ispirato su un fatto reale, di influsso alfieriano e sul modello di un’opera di Goethe “I dolori del giovane Werther”, si può dire che esso assurge, particolarmente in alcuni passi, a vera poesia. E’ la storia, per molti versi autobiografica, del giovane Jacopo che deluso dal trattato si rifugia sui colli Euganei, quei Colli Euganei di natura incantevole altrettanto vissuti da Foscolo come già detto, dove il giovane si innamora di Teresa, già promessa sposa. Consapevole della impossibilità di vivere questo amore, vaga disperatamente per l’Italia, non confortato da nulla, né dalla bellezza della natura, né dalla saggezza del Parini, incontrato a Milano. Afflitto per il popolo italiano, ritorna sui Colli Euganei dove si uccide, suicidio dal sapore poetico, non sventurato, ma inteso come coraggio di libertà con il suo valore spirituale, come affermazione di quegli ideali senza i quali non c’è dignità. Le parole dell’opera sono la forte espressione dei sentimenti dai temi “romantici” del poeta, nella fusione, appunto, degli elementi autobiografici di natura sentimentale, di natura politica-ideologica , nell’ispirazione eroica, nell’impegno civile, che riflettono lo spirito tormentato del popolo. L’Italia è diventata protettorato francese ed un tema importante nel romanzo diventa quello della patria-nazione, nonché quello poetico dell’esilio. Non meno poetici sono gli assunti dai valori positivi delle illusioni, dell’amore difficile e sofferto e dell’amore che conforta; del contrasto tra la realtà dolorosa dell’uomo e la sua ansia di riscatto tramite anche la bellezza della donna, e del potere consolante della bellezza in genere; della natura rasserenatrice; dell’eroismo virtuoso romantico. Nel sostenere la mia tesi che lo Iacopo Ortis, sebbene romanzo, sia in vari momenti gloriosa poesia, voglio rifarmi particolarmente “all’incipit” dell’opera, che nel suo ritmo è un endecasillabo, sottolineandone, quindi, la fortissima poeticità proprio dal punto di vista ritmico. Poesia cesellata dai suoi termini forti, quali “patria” e “sacrificio”, quel sacrificio ineluttabile, inevitabile, inesorabile, contro cui non si può lottare proprio perché imposto da una fatale necessità. La tragicità degli eventi e il “tutto è perduto”, espressione di passione e tensione fortissima, sono descritti con una tale caratura poetica da creare una carica emotiva e pathos nel lettore. Quello stesso pathos, commozione profonda, che Foscolo aveva subito nel suo reiterato dramma dell’esilio dalle sue patrie: Zante, Spalato, Venezia, in una eroica sopportazione di sventura, come Ulisse, ma che per il nostro scrittore termina in una disperata, ineludibile, emblematica “illacrimata sepoltura”. D’Annunzio, poi, ben interpreta, con la sua poesia di intensa emozione, i tempi e i luoghi delle sue vicissitudini di vita e questo sempre a gran voce, nella sua immagine di vita eccezionale, prepotentemente all’insegna del clamore, come gli era pertinente e come richiesto dallo spirito del “superomismo” di moda letteraria, uno degli aspetti del Decadentismo a lui più congeniale. Decadentismo al quale era approdato dopo aver maturato tanta cultura, da Carducci a Dostoevskij e quest’ultimo in quella accezione di introspezione psicologica, che passava per l’esperienza del Naturalismo francese e Verismo italiano. Era il Decadentismo a ben rappresentarlo, per quella ricerca di miti umani, dettati da scrittori e pensatori da lui amati come Nietzsche, per i suoi intenti irredentistici, interventistici, appunto da superuomo. Tramite esso rinforzerà il suo ideale di Forza e di Bellezza, nel cantare la natura della sua terra natale e l’amor di Patria, il tutto calato in un sensualismo coinvolgente, che talvolta avvicina e talvolta allontana questo scrittore, nel tempo tanto discusso, e che tuttavia, pur nelle sue forme di espressione di pensiero talvolta discordanti, incuriosisce sempre. La visione “panica” che lo scrittore confronta con il suo stile rivestito di perfezione formale, rende la sua espressione artistica più intensa e stempera la virilità che gli è altrettanto propria e naturale. In questo concerto di sensualismo, naturalismo e di naturalismo sensuale, si raccorda il mito del Superuomo dannunziano di cui si farà interprete ed eroe nella difesa di quella “Vittoria mutilata”, espressione da egli stesso coniata alla fine della prima guerra mondiale, per indicare quella vittoria militare ottenuta in battaglia e vilipesa nelle trattative diplomatiche. La produzione letteraria di D’Annunzio è molto ricca e si può dire che sarà proprio questa guerra a segnare una divisione nei componimenti e nelle gesta di questo scrittore soldato, di questo poeta eroe. Del primo momento, fanno parte più, quelle opere dello scrittore-poeta come ad es. “Canto Novo”, “Le Laudi” ecc., al secondo momento appartengono, invece, gli scritti dello scrittore-soldato come “Notturno”, “La canzone del Quarnaro” ecc. Opere tutte che vivono, per lo più, la rappresentazione scenica della sua vita, come quando si fa volontario nel 1917 non risparmiandosi, come soldato, sulle montagne aride del Carso e, a seguire, come aviatore su Vienna, Pola, Cattaro o nell’impresa de “La beffa di Buccari” nel golfo del Carnaro. Imprese dalle quali torna sempre accolto come un valoroso, rinforzando il gusto per il gesto eccezionale. Il mito dell’eroe, del superuomo non è, però, una condizione nicciana-dannunziana. Visto che già nel seicento e poi con Goethe c’era stato l’anelito da parte delle persone di superare i propri limiti. L’accezione razzista-nazionalista, testimoniata dal nazismo, è però dell’età del poeta. Uomo d’azione, intrepido sostenitore dell’Istria, della Dalmazia e Fiume in Italia, perché terre di forti emozioni sempre nel suo cuore, è proprio con l’impresa di Fiume che renderà perenne nel tempo la sua immagine, perché Fiume è per D’Annunzio, come dice in una lettera a Don Rubino suo amico, “Causa Santa…la più pura e la più alta che sia nel mondo…merita…non soltanto la vita, che è lieve, ma ogni altro bene, Io non lascerò Fiume se non morto. Ma neppure morto; ché desidero riposare in vista del Quarnaro, all’ombra di quei lauri”. Quei lauri dal sapore di pittura di cui tante volte aveva condiviso la frescura, il verde e la bellezza riflessa nelle acque adriatiche. Del resto, sollecitando i marinai d’Italia in Fiume italiana per quell’Adriatico italiano, con un fare estetico-politico, con tutto il suo entusiasmo si era trovato più volte a caldeggiare quell’Adriatico smeraldo e trasparente a lui tanto caro poiché “…è sempre stato per noi un mare di vita perché ci appariva come una forma della nostra passione e come una forma della nostra speranza. Era nostro perché non avevamo mai cessato di volerlo nostro…” E’ un amplesso sensualistico panico di superomismo quello del poeta nei confronti di Fiume e della Dalmazia, che i trattati della prima guerra mondiale non avevano riconosciuti e assegnati all’Italia. Tanto sangue sparso non era riuscito a riscattare l’italianità di un popolo che era si era sentito italiano da sempre. Nel sottolineare il senso di bellezza e di estetismo di D’Annunzio , non si può non menzionare l’”Alcyone”, il poema dell’estate, capolavoro del poeta, una raccolta di liriche che si inserisce nella più ampia antologia delle “Laudi”. Qui l’autore abbandona i toni eroici e civili per parlare di una vacanza estiva in Versilia, in comunione con la natura, in una dimensione arcana e profonda della realtà. Avvincente è il tema delle liriche della metamorfosi dalla dimensione umana a quella naturale, della trasfigurazione dell’umano nel respiro panico della natura e viceversa, nella sua musica sinuosa e ineffabile. Coinvolgente è infatti la musicalità dei versi, per il valore musicale della parola nel suo effetto fonosimbolico e per la forma metrica nuova. Particolarmente bella tra queste poesie “La pioggia nel pineto”, espressione di musica anche nel suo ritmo di pioggia e sogno del vagare senza meta del poeta e della donna amata Ermione. Intrigante è, il nome e la figura della donna Ermione, a cui il poeta si rivolge nell’ultimo verso di ogni strofa, emblematica della dolce favola dell’amore. E’ nel leggere questi versi tra immaginifico e realtà che mi viene in mente di quale potere sia capace la poesia per il lettore… La poesia, infatti, coinvolge i più, non lascia indifferenti nell’ascoltare quei suoni che anticipano i significati, quelle parole che hanno un sapore, creando maieuticamente altre parole nella nostra testa, facendo nascere un’altra poesia, la nostra, facendoci proprie le parole che spesso mancano, in una metamorfosi esistenziale. Il fil rouge tra gli autori trattati finora, è sicuramente “l’espressione dei sentimenti di nostalgia per i tempi e luoghi passati”, per lo sradicamento desolato dai luoghi cari di origine e in questo accostamento non posso trascurare Antonio Seccareccia. Questi sia nella espressione di prosa poetica di lungo racconto come “Le isolane”, raccolta di quattro episodi che narrano la storia di donne incontrate nel periodo militare da volontario in Grecia, durante la seconda guerra mondiale; sia in quelle significative poesie delle varie raccolte come “Viaggio nel sud” e “La memoria ferita”, ne risulta raffinato scrittore. Riguardo “Le isolane”, ambientato in terra greca, mi viene da azzardare, impressionata dal discorso condotto finora rispetto i poeti presi in esame che si sono compiaciuti di fare anche una disamina politico-culturale sulle terre d’Istria e di Dalmazia, che si possa riconoscere, per molti aspetti, un collegamento subliminale tra l’Istria, la Dalmazia e la Grecia stessa, e soprattutto per quelli della vita contadina da una parte, per la presenza del mare dall’altra e per la terra pietrosa. L’Istria, la Dalmazia e la Grecia si assomigliano. Prose che nelle loro descrizioni di paesaggi e di tessuto umano, nel loro ritmo di poesia, portano la lezione del ricordo e del vivere, un vivere da Seccareccia restituito alla scrittura, quanto la scrittura al vivere stesso. Ricordi felici e talvolta dolorosi dello scrittore in quel vissuto precario, sentiti in maniera analoga dai poeti trattati e dai tanti usciti da altrettanti luoghi lontani di esilio. I personaggi de “Le isolane”, nella loro solitudine, mi danno un immediato accostamento tematico per i loro sentimenti ai poeti che hanno cantato le genti di Istria, Fiume e Dalmazia, nonché a queste stesse genti. La solitudine dei protagonisti è l’elemento caratterizzante de “Le isolane”, quella solitudine di Panaiulla della non speranza. Quella speranza che non c’è neanche per i cari Dante, Foscolo, Carducci, D’Annunzio per loro stessi fuorusciti o per gli esuli che raccontano, nel loro senso di smarrimento esistenziale o di speranza tenue da cui si sentono esclusi, ed il tutto in un contesto spazio temporale di una natura per lo più rasserenante, dai fulgidi colori di luce di cielo e di mare, lì Egeo qui Adriatico, del giorno a contrasto del buio della notte, in una metafora di chiarore ed oscurità della vita, in un senso di drammaticità e disorientamento, che non spersonalizza, però, i personaggi del romanzo, né i nostri poeti e le genti giuliano dalmate, da loro raccontate, in una scelta di dignità morale. Anche Seccareccia è l’esule che non vede ritorno all’amata terra di origine e questo raccontato nella corrispondenza con l’amata madre, fa evincere il dolore di entrambi legati dalla stessa lontananza e il suo sogno di ragazzo di ritrovarla al ritorno. Poesia di memoria per la madre e per quella terra agognata. Ritorno definitivo che non si compirà nella realtà, ma che in una nostalgia consolatoria, vedrà quel tempo circolare e non lineare, del nostos stesso, compiersi solo in versi. Il mito del ritorno è quanto accosta, in un tema assiomatico, questo poeta agli altri scrittori ed ai loro esuli. “La memoria ferita” è la riemersione del suo passato sofferto, popolato da sogni e spettri, incarnato dal nostro scrittore in maniera neorealista nel mondo contadino del suo sud, ma che tanto è pertinente al senso del passato di dolore di chi come lui si è sentito forzatamente estraniato dalla cara madre terra di origine, tra l’altro in un recupero di una parte di se stesso, solo apparente. L’anima di Seccareccia, nonostante gli affetti, esprime continuamente una sottile nostalgia per la perdita dell’amata casa, terra, cose, che da condizione della sua identità, diventa in maniera traslata identità dei tanti, come lui, che si ritrovano in una poesia tanto evocativa, nobile e bella per i suoi significati profondi. Nel concludere per il significato di poesia e poetica come scelta di esperienze letterarie ed estetiche precedenti, ci piace aver individuato una poesia di spessore fatta da “grandi”, quali gli autori trattati, per la loro capacità e qualità di raccontare le proprie traversie e sofferenze, per averci arricchito e per averci aiutato a riflettere, restituendoci la memoria di fatti storici, atto di amore, proprio perché la storia non può concepire frammenti e lacune, affinché non ci sia più nessuno che ancora poco sa, smarrito davanti ad una terra sconosciuta che è al di là dell’Adriatico, ma che nei cuori infranti di noi Italiani e particolarmente degli Italiani istriano dalmati, rimarrà sempre unita, di qua. Mirella Tribioli Maggio 2018 Parliamone in 15 minuti
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