La sfida di Facebook - Marco Castellani
Questo intervento vuole riprendere idealmente il filo dei quindici minuti di Giuseppina Nieddu, del 22 gennaio di quest’anno, che aveva a tema l’impatto dei social media – ed in particolare di Facebook – sul nostro percorso, appagante e faticoso, verso un modo nuovo di essere uomini, e perciò stesso, verso un mondo nuovo. Un che contiene diversi temi su cui la riflessione è aperta, ed è anzi necessaria, per il momento particolare che stiamo vivendo. Momento che si configura davvero come un cambiamento d’epoca, come dice anche papa Francesco: non è un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca, ci avverte, facendo propria la percezione diffusa in molti acuti osservatori, di qualsiasi fede e professione culturale. Se possibile, l’attualità di questo tema è diventata ancor più stringente, per lo scandalo relativo al caso Cambridge Analytica e all’uso “spensierato” di dati personali al fine di manipolare ed orientare le nostre scelte, non soltanto in ambito merceologico, ma anche in occasione di eventi importanti come le elezioni politiche. Questo ha esposto un vulnus, una ferita che riguarda noi tutti, perché noi tutti ci sentiamo in una certa misura invasi e offesi. Una ferita dalla quale dobbiamo e vogliamo imparare, lentamente, a guarire. Anche attraverso un nuovo e diverso rapporto proprio con Facebook, ed i social media in generale. Per entrare nel nostro tema, riprendo alcuni spunti dell’intervento di Giuseppina, al fine di sottolineare questa linea di continuità ideale. Giuseppina scrive che “Quando la scuola fallisce e i giovani si perdono perché si sentono soggetti privi di valore e talvolta diventano molto arrabbiati è perché avvertono che qualcuno ha rubato loro il cielo senza neppure guardarli.” Ed anche, più avanti “Quando i ragazzi, di periferia o di città, che arrivano da Occidente o da Oriente, famelici e audaci, belli e ribelli, insieme a noi vedono e seguono una stella, si apre un nuovo scenario dello stupendo incontro tra la mente e il cuore mostrandoci “il Bambino” che vive in noi”. L’intervento di Giuseppina chiude significativamente con la percezione che “un uso sapiente di Facebook può contribuire a favorire e a diffondere la cultura del dialogo, a cercare insieme parole poetiche per pregustare cieli nuovi e terra nuova ed arrivare a sperimentare come possibile risonanza, l’armonia del canto celeste.” Ecco, proprio questo canto celeste ci conduce direttamente al nostro tema. E qui siamo subito ad un punto importante. Una percezione risanante del cielo non può avvenire senza una collaborazione della percezione scientifica del cosmo, e a sua volta questa non può accadere – ormai davvero non può – senza una corretta articolazione dell’informazione scientifica nel mondo dei social media. Ci dobbiamo infatti rendere conto che i social media hanno raggiunto una pervasività enorme (secondo le ultime statistiche, Facebook vanta quasi un miliardo e mezzo di utenti che si collegano quotidianamente) e rappresentano ormai assai spesso una della principali fonti di informazione – in ogni settore e in ogni campo. Ecco il problema e la portata del caso Cambridge Analytica, che altrimenti non avrebbe di certo questa pregnanza. Ma sono due sono i passaggi cruciali, nel nostro percorso di oggi. Il primo è che abbiamo bisogno di una nuova nozione di cielo, e questa deve venire da un modo rinnovato di intendere la scienza (ed in particolare la scienza delle stelle e del cosmo, che è quella di cui mi occupo per professione). L’altra è che tale nuova nozione non può arrivare se non si coinvolge in un diverso e più maturo uso dei social network, di cui Facebook – per quanto in crisi – è al momento presente il simbolo per eccellenza. Perché dico una nuova nozione di cielo? Sarebbe illusorio pensare di poter evitare questo lavoro di ridefinizione che attende qualsiasi cosa, qualsiasi ambito. Nei momenti di crisi le cose devono prendere un nome nuovo, devono rinnovarsi, proprio per continuare ad agire nella storia secondo il loro esatto compito. Per dirla in modo paradossale: devono cambiare, per rimanere fedeli a loro stesse. In questi giorni, appena trascorsa la Pasqua, sentiamo tutti forte una esigenza di rinnovamento, la necessità di dare un nome nuovo alle cose, quel nome nuovo che riporti all’emozione primaria, primigenia, al “primo amore”. Come dice il Papa nella messa della notte di Pasqua, “La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza.” Peraltro, è la stessa scienza a chiederci questa ondata di rinnovamento. La stessa percezione del cosmo non è una invariante, nel tempo. Chiede a noi continuamente di mutare atteggiamento, prima di tutto. E non è una cosa da poco, né cosa per pochi. Basterebbe, al proposito, ripensare ai giorni appena trascorsi, all’eco che ha suscitato nei media la morte di Stephen Hawking, il celebre teorico dei buchi neri, appassionato indagatore dei misteri dell’universo. Hawking, con la sua sfida alla malattia invalidante che lo affliggeva, ha infiammato il mondo nell’ardore della sua ricerca. Così che qualcosa di molto specialistico è diventato, sorprendentemente, patrimonio comune, un bene condiviso, da tutelare. Questo cosa ci dice? Che la gente ha fame di scienziati veri, cerca una visione scientifica del cosmo in cui collocarsi e dalla quale guardare tutto. Del resto, l’uomo ha sempre avuto una visione condivisa del cosmo, in cui adagiarsi, in cui prendere fiato. Solo nei tempi più recenti si è creata questa frattura, questa anomalia per cui all’uomo – come diceva Giuseppina – è stato rubato il cielo. All’uomo, e non solo ai ragazzi! Ecco dunque il primo passo di questo movimento primaverile di espansione, di ripresa. C’è una mancanza, un vuoto che occorre ripristinare, una ferita che occorre sanare. Abbiamo sempre avuto un modello di cielo, dicevamo, fin dall’inizio della storia. Poco importa, in questo momento, se fosse scientifico secondo i parametri moderni, o invece – come diremmo oggi - più propriamente mitologico. Dai primi modelli astronomici dei babilonesi, che vedevano il mondo come un disco piatto posato su un immenso oceano, l’uomo è sempre stato accompagnato, è stato guidato nel suo cammino nel cosmo: ogni specifica cultura elaborava una sua storia di universo, in ciò obbedendo alla funzione di rivestire di parole, di rendere raccontabile - e dunque percorribile - l’infinità del cosmo entro cui siamo immersi. Percorribile, perché portatore di significato, costellato di miti e simboli. Soltanto l’età moderna, con lo squilibrio portato a vantaggio della parte più razionale, raziocinante dell’uomo, ha spinto ed incoraggiato una visione di universo sempre più elaborata e “tecnica”, brutalmente scollegata dall’uomo stesso, asetticamente distaccata dalle emozioni, dalle percezioni e dall’esistenza medesima di chi si pone innegabilmente come punto privilegiato del cosmo, punto cardine: quello in cui il cosmo finalmente osserva sé stesso. Tale è l’uomo. L’uomo. Ecco il grande escluso dalle moderne teorie cosmologiche. Ecco il grande furto a cui urgentemente porre riparo: c’è da riconsegnare il cosmo all’uomo. Dare all’uomo – ad ogni uomo - un modello di universo comprensibile, pensabile, lavorabile. Raccontabile, anche nei social. E soprattutto, portatore di senso. La partita è fondamentale: un cosmo non raccontabile è un cosmo in cui il disagio di non poter tracciare una storia diventa angoscia, timore del nulla, si veste di senso di impotenza, si colora di paura dell’ignoto. Come da piccoli, la voce del papà e della mamma scavavano un percorso rassicurante nel buio della notte, confortando il nostro cuore impaurito, così l’umanità è sempre “piccola” – ovvero sempre in crescita – e desiderosa di ricavare un sentiero nel cosmo: per vedere il buio non più come oscurità, ma come un silenzio trattenuto, delicatamente trapuntato di stelle. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume “Il Tao della Liberazione”, “abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo” In breve, la cosmologia moderna ha questo grande compito, riportarci verso un cosmo a misura d’uomo, ovvero un cosmo incantato. Scrivono infatti gli stessi autori, che “l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto.” In questo modo il nuovo cosmo non potrà che riflettere la nuova scienza, quella che riporta l’essere umano non solo al centro del processo cognitivo, ma al centro stesso dell’universo che vuole indagare. Questa rivoluzione non avviene oggi “per caso”, ma è stata preparata da una profondissima crisi all’interno della stessa scienza più rigorosa, crisi che ha visto lo scardinamento e il tracollo della visione meccanicistica cartesiana sospinta dall’avanzare delle visioni - potentemente dirompenti - della fisica relativistica e della meccanica quantistica. Non è questa la sede per indagare la portata di tali eventi davvero rivoluzionari, dobbiamo appena comprendere il loro di stimolo potente verso le istanze di un ricominciamento totale, anche nella scienza. Questo ricominciamento, questo reincantamento, possiede in sé l’urgente necessità di comunicarsi a tutti gli uomini, perché tutti noi siamo comunque vittime di questo “furto del cielo”. E’ un risarcimento che si vuol proporre, in altre parole. Urgentissimo, perché già tardivo. Una impresa di questa natura – ed ecco il passaggio cruciale - non è ormai nemmeno pensabile, senza il coinvolgimento attivo dei social media. Riepilogando: c’è dunque un messaggio, il nuovo cosmo “a misura d’uomo”, e c’è la necessità urgente di rilanciarlo attraverso i canali privilegiati della connessione informatica, così pervasiva ad ogni livello di istruzione e in ogni ambiente. Anzi, potremmo addirittura ribaltare la questione, sostenendo che questa facilità immensa di comunicazione è nata esattamente nell’attesa, nell’imminenza di un messaggio “planetario” da trasmettere. Così comprendiamo perché, con Facebook, Twitter e gli altri social media – che a loro volta si appoggiano a questa straordinaria innovazione che è Internet - siamo arrivati ad una capacità di connessione sbalorditiva, proprio nell’imminenza di questo momento di crisi. Il rischio allora è che questa capacità di contatto e condivisione, questa inedita potenza di fuoco possa rimanere senza un messaggio profondo da veicolare. Sarebbe pericolosissimo, perché l’assenza viene sempre colmata, in qualsiasi modo, a qualsiasi prezzo. Lo vediamo nei giorni presenti, dove diviene sempre più difficile estrarre un contenuto di valore dal rumore di fondo di ogni schermata di Facebook. Il valore, ovvero tutto quel che invita a riflettere e ad approfondire, rispetto alle innumerevoli “chiamate” alla reazione immediata e superficiale. Tutto questo presenta conseguenze dirette nell’educazione, quel processo delicatissimo che deve anch’esso tornare ad un incanto primordiale, ad un ambiente protetto e non giudicante dove la creatività dei ragazzi è esaltata, come ci ha ben mostrato l’intervento di Carla Ribichini sull’Educazione visionaria, al quale pure voglio collegarmi. Per usare proprio le sue parole, “tutti i linguaggi devono essere rinnovati, ma quello che riveste il carattere di maggiore urgenza è quello dell’educazione”. A noi dunque la scelta di subirlo, questo cambio di pelle, di rimanere frenati in questa urgenza del nuovo, sempre più a fatica, o di lanciarci, e scommettere su un rovesciamento di prospettiva. Alla fine, è una decisione, a cui siamo chiamati. In questa proposta interpretativa non c’è più il “caso”, ma tutto avviene per un senso, e la percezione di un modo “incantato” di guardare l’universo richiama ad un modello d’uomo che non è più vittima della tecnica, perché – in ultima analisi - non è più prigioniero del nichilismo. Un uomo che possiede un senso delle cose, è un uomo che manipola ogni oggetto, ogni tecnica, con una coscienza diversa, che porta frutto in quello che fa, anche al tempo passato sui social. Non ci serviranno dunque decaloghi e regole d’uso per recuperare una dimensione umana in Facebook, ci salverà piuttosto la percezione di un cammino fatato, di un percorso possibile verso quel “Regno” di cui parla Carla nel suo progetto educativo, dove tutto diventa anticipo e possibilità d’espressione nuova, di creatività inedita ed insperata. Dove la scienza si sposerà con un uso equilibrato e sobrio del mezzo informatico, recuperato nella sua autentica dimensione di strumento, e non di fine. In altri termini, ripreso a servizio. Infine, a chi riguardasse tutto questo come bello, ma utopico, permettetemi di rispondere con un motto del ‘68 francese, molto amato sia da scrittori laici come Albert Camus che da personalità religiose come Don Luigi Giussani: “Siate realisti, domandate l’impossibile”.